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Parigi vista dall'alto

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23. capitolo



   Sono tornato a guardare Parigi dal parco di Belleville. Tutto si mescola e si differenzia sotto i miei occhi, davanti al mondo intero riassunto in un gruppo sterminato di case. Da questa fucina si sprigiona una moltitudine archetipica di ogni forza, colore, tensione, vibrazione; emergono non viste gioie e disperazioni sfoderate in ogni foggia; traspaiono i silenzi imperituri dentro il frastuono incessante che giunge fin quassù ovattato. Sui silenzi quasi invisibili parole a fiumi, di tutti i tipi, sempre, sempre.

   L’arte che si fa strada in qualsiasi modo e si sente nell’aria, quasi che anche il cielo di Parigi fosse così colorato di religiosità. I simboli riescono a emergere, alcuni distintamente per la maggiore altezza, altri seminascosti o sperduti alla vista: tentativi umani di segnare questo dialogo meraviglioso della vita persino con i gesti architettonici voluti per immaginare eternità. In questo mare di abitazioni navigo dal mio isolotto insieme alle voci intorno, di altri, venuti quassù a vedere la città gigantesca che corrompe tutti i giudizi oggettivi.

   Molti di questi passanti sono saliti a Belleville per un attimo di pace o di verzura; non sembrerebbe vedano quanto sta là, così prossimo a noi: per distrazione, stanchezza, per bisogno di ignorare, per una saggezza speciale. Proseguo anch’io, con la vista sempre di più dentro il mare, fino a scorgerlo – quasi – ai suoi limiti estremi, alle porte di una campagna distante troppe miglia da qui. Questi orizzonti vuoi aristotelici, vuoi disegnati dall’infaticabile volontà, da tutta la rappresentazione muovono, direi, un infinito come quello leopardiano a cui penso. Poi penso ad Adèle: lei pure laggiù, fra tutte quelle case e non vista, introvabile, sparita. La sento sulla pelle come l’aria che mi sfiora, che circola per tutte le vie, a tante differenti velocità.

   Tutta la leggiadria promossa, che fa pressione. Mi spingo con la testa fino a vedere cose che non esistono; ma cosa è il nulla, e con quale oracolo compare, se posso ragionare pensando già che tutto esiste? Come se anch’io partissi da un nulla e nutrissi la ventura di averlo potuto cavalcare, alle soglie della periferia di questo tempo incredulo, ai confini che sono anche della scrittura. Oso guardare adesso così la mia cara città isolana. E lei guarda quassù; comunichiamo senza usare le nostre scale spettacolari, con gli altri linguaggi non verbali.

   Sembra che un mondo sia finito, che tutto sia solo visibile di spalle, da una croce dietro il Cristo di montagna in Friedrich. Non oserei avvicinarmi a questa rupe tanto scoscesa, non è una visione che ci appartiene, da spiegare.

   Lascio le vertigini tutte sepolte nel baratro lontano, io vado a spasso e cerco di credere adesso alla stregua di ciò che prende posto, solletica la mia curiosità; non è un problema, per me: siamo scesi insieme senza timore, senza neanche spiare il ronzio d’uno sciame e senza voltarci; sono proprio vivo. Tu lo dici, se mi guardi così.





   
un ultimo brano del libro

   

   Allo square des Batignolles c’è un lago, che rivedo adesso con mia madre. Un ruscello lo alimenta sul pendio tranquillizzante.

   Lì le anatre faticano a resistere alla rincorsa costante del cibo che gettano nell’acqua le persone dalla riva. Un albero imponente e fiabesco si specchia con nobiltà in scintillanti riflessi. Anch’io vado intorno allo specchio d’acqua, con animo e l’indifferenza di chi può amare.

   Dalla nostra casa Adèle e io guardiamo presto il mattino dentro l’indifferenza udibile d’amore, che ci fa incontrare il piacevole controllo effimero delle cose indomabili.

   Sono sfuggito in questo caso a troppa scrittura, inoltrato nelle cose inspiegabili con tutto il corpo del reato. Le lascio infine ascoltare, alla sua riva, questa ultima immagine di soddisfazione.

   Sotto, dalla stradina si vedono già i bus, l’animazione iniziare. Oggi noi, invece, non abbiamo nulla di particolare da fare, possiamo fare tutto.