Home » il romanzo "Autorevole amore" » altri brani del romanzo

altri brani del romanzo

stampa pagina

alcuni brani di "Autorevole amore"




8. capitolo


     Ho trascorso interamente il sabato nella mia casa all’impasse du Moulin Vert. Ho rifatto un po’ d’ordine nella mente e ricostruito ciò che comincia a sembrarmi certo.

  La morte non è evento della vita. La morte non si vive, scrive Wittgenstein. Quindi potrei anche supporre che la scrittura viva ancora; ciò che è successo in rue Talma non sarebbe un evento.

   Wittgenstein insegna che la risoluzione dell’enigma della vita nello spazio e tempo è “fuori” dello spazio e tempo. Ma quale spazio, quale tempo, mi domando? Non devo lasciarmi ingannare da una strada, quella dov’è avvenuto apparentemente l’assassinio; non è lì che risolverò il mio enigma: non in quello spazio. E nemmeno devo piazzarmi nel tempo, il quale pregiudicherebbe la mia possibile comprensione di questo accaduto. Fuori dello spazio e tempo. Devo andarmene fuori! Ieri ho reso visita a Julien de Pouvoir, all’ospedale Chardon-Lagache.

   È sempre assistito dai medici, ha ripreso a parlare con buon eloquio, passeggia. Ma non ricorda più nulla. Parla come se conoscesse la vita, Parigi, la sua rue du Ranelagh. Ha dimenticato i suoi libri, la biblioteca, il mestiere che fa. Non sa più nulla di quella notte in rue Talma, di quanto ha visto, del suo svenimento e dei soccorsi. -Cosa vuol dire Talma?- mi ha chiesto. Gli ho spiegato essere il nome di François-Joseph, un attore al tempo dell’Impero. Si è interessato alla mia cortesia, al fatto che sia andato a trovarlo, che mi sia disturbato per lui. Gli ho spiegato allora che sto cercando un assassino, e una parola, e che tentavo di farmi aiutare da lui, testimone dell’accaduto.

   Gli ho mostrato lo scritto di Voltaire, che lui teneva stretto, e che due infermieri ci hanno apposta portato; ma Julien de Pouvoir non sa più leggere! Non è più in grado di capire la scrittura. Neanche l’aria dei Verdi prati che gli ho proposto d’ascoltare da un piccolo registratore che avevo con me, l’ha smosso. Sentiva bene tutti quei suoni, mostrava allegria; ma altrettanta indifferenza.

   Ecco: proprio l’indifferenza di Jean mi è allora parsa fuori dello spazio e tempo. Egli aveva in sé la chiave dell’enigma, ne ero certo. Aveva risolto il quesito della vita a modo suo, inconsapevolmente. E se Wittgenstein può scrivere che i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo, Julien, dai suoi nuovi limiti era riuscito a distanziarsi dallo spazio e dal tempo, e capiva l’enigma perché era in grado di osservarlo. Osservarlo, semplicemente, senza dar peso al linguaggio, senza farlo aderire a una forma. Non si preoccupava di vivere tranquillamente il presente; lo viveva e basta. Sembrava aver fatto suo il pensiero del filosofo viennese: i fatti appartengono tutti soltanto al problema, non alla risoluzione.

   V'è davvero dell’ineffabile. Esso “mostra” sé, è il mistico. Ecco l’ineffabile, Julien sembrava averlo compreso. Grazie anche al suo silenzio speravo a questo punto di poter anch’io presto vedere mostrato il mistico, e risolvere il quesito di rue Talma.



 




9. capitolo


  A uccidere la scrittura è stata una parola al chiarore lunare, dove s’incrociano rue Singer e rue Talma.

   Nessun segno di violenza. Delitto perfetto. Devo trovare l’assassino.

   Ho ascoltato Fabrice Vasco, il collega del de Pouvoir. Ci siamo incontrati al Polidor, a cena.

   -Proprio sette giorni prima dell’incidente- racconta -Julien mi confidò, in una sala della nostra biblioteca, d’essere giunto a una scoperta musicale, e di sentirsi assai felice.

   -Una biblioteca municipale, vero?

   -Sì, al Trocadéro; al 6 di rue du Commandant-Schlœsing. Julien ci arrivava ogni mattina colla linea nove del métro, o col bus 22.

   -Già. Abitava in rue du Ranelagh.

   -Esattamente, al 102. Non è distante dalla biblioteca. Julien ed io stavamo spesso insieme, anche dopo il lavoro; non è sposato, ha tempo. Spesso lo invitavo a casa mia, all’impasse Kléber. Sa, mia moglie cucina gradevolmente, e ci sono i bambini: a lui faceva piacere ogni tanto sentire il calore di una famiglia.

   È stato presto orfano; ha poi passato tanti anni agli Orphelins Apprentis d’Auteuil. Ha ottenuto l’impiego in biblioteca, dopo di me: un uomo molto preciso, sognatore, e colto davvero.

   -Ho potuto incontrarlo brevemente, all’ospedale. È vero, ha anche modi raffinati, ma ricorda molto poco, purtroppo.

   -Una disgrazia. E dire che la sua era una memoria che sbalordiva. Andare a perderla così!

   -Già. E mi dica, signor Fabrice, ha notato se stava cambiando, ultimamente? Nuove abitudini, nervosismo, mi capisce?

   -No! Non era nervoso Julien. Al contrario: era semmai più loquace del solito, e forse anche  un po’ meno visionario. Händel gli piaceva sempre; per certe arie aveva poi l’ossessione. A volte mi portava ai concerti, alle opere. Forse, come ogni bibliotecario che ama il mestiere, tra i libri si sentiva suppergiù il difensore della scrittura. Sa, ne abbiamo noi di testi… Chissà: pure questo lo ossessionava non poco, lo rattristava persino. Mia moglie ha creduto spesso ci fosse una vena un po’ folle di squilibrio nel suo rapporto coi libri. Lui, che in rue Gutenberg, a Boulogne-Billancourt visse da bambino un incendio spaventoso, nel quale perse i propri genitori.

   Suo padre era un docente piuttosto conosciuto, e aveva raccolto migliaia e migliaia di volumi. Bruciò tutto in poche ore. È probabile che Julien sia rimasto prigioniero di questa sciagura, anche se ne uscì del tutto illeso, e miracolosamente; ma privato degli affetti e di ogni cosa cara.

   Nella nostra biblioteca, ora, difendendo (per così dire) la scrittura, è come se esorcizzasse un incubo che ha patito.

   -Lei pensa allora- chiesi a Fabrice Vasco -che si tratti di un’ossessione radicata, che viene da lontano, da amori persi? E che le cose scritte abbiano molto significato anche affettivo per Julien?

   -Certamente. Come nella musica sapeva raggiungere attimi ineguagliabili di pace, una sorta di tregua, nel suo rapporto col lavoro scavava nella vita, che gli era stata tolta, e che proteggeva, anche quasi simbolicamente, poiché il libro medesimo stava in lui a significare la sua stessa famiglia, andata letteralmente in fumo. Ma ripeto, era, è un uomo colto Julien: il suo atteggiamento, quindi, non lo leggerei come un disturbo psicologico non risolto; è piuttosto un’azione devota verso la memoria, la sua, che sembra ora aver smarrito, e verso anche la memoria universale, il patrimonio intellettuale.

   -Allora che significato attribuire secondo lei, signor Fabrice, all’episodio di rue Talma?- E raccontai a Vasco tutti i miei pensieri andatisi a creare su questo fatto. Le mie personali convinzioni sulla filosofia e su quel gesto, ricordando gli autori che richiamavano e consolidavano i miei pensieri e, insieme, gli stessi suggerimenti di mio padre.

   Il viso opaco ma vivace del mio interlocutore risplendeva alle mie suggestioni, come se stesse digerendo qualcosa di prelibato. Gli occhi profondi e verdognoli, davano qualcosa di magico al suo sguardo, che comunque denotava una certa innocenza, in contrasto col naso virile e i tratti delle labbra sempre sfumati, quasi in una perenne ricerca di vocaboli da pronunciare. Gli abiti erano molto corretti, quasi ricercati, ma di gusto elevato; indossava una stupenda cravatta Corneliani, in cui si rincorrevano con grande abilità pizzichi maestosi e mescolati ad arte di verde assai scuro e di un bordò pressoché musicale. Tutto quanto faceva molto contrasto coi capelli e metteva in risalto maggiormente la sua chioma abbondante e scura, disordinata con quel garbo discreto e tipico di una persona avvezza alla cultura.

   -Infatti- rispose Vasco -l’assassinio di rue Talma è diverso da tutti gli altri. Julien era amico anche dell’antichità. Deve aver scoperto una parola, forse proprio contenuta nella tragedia di Voltaire, e capace di distruggere. Il mio collega soffriva d’insonnia, e so che usciva magari anche di notte, a passeggio: purtroppo è terribile non riuscire a prendere sonno. Allora ammazzava il tempo, così. Quella volta capitò in rue Talma, e qualcosa deve averlo molto impressionato, ricordandogli magari ore travagliate del suo passato. Una parola, un simbolo che lui ha scorto da qualche parte e l’ha sconvolto a tal punto da fargli perdere i sensi e la memoria.

   -Talma impersona Bruto, in Voltaire.

   -Già, l’uccisore di Cesare. Forse Julien non è arrivato casualmente in quella via! Forse lo strazio e quella parola li ha cercati, per uscire anche lui dalla vita, in un certo senso, lasciando che andassero consumandosi à jamais le pene che gli impedivano di esistere veramente.

   -Ha perso ciò che lo opprimeva, e che nella sua memoria disturbava: ora non deve più ricordare nulla. Penso ad Autodafé, di Canetti; in fondo la vita di Julien era svanita già tanto tempo prima, nel rogo dei libri di suo padre. Quindi egli era distante da un mondo che immaginava tuttavia di difendere, così come stava proteggendo i testi e la scrittura che avete nella biblioteca al Trocadéro. Anch’egli, come nel rogo di Canetti, sembra essere un personaggio estremo, e non accetta il fatto che la realtà non esista più; è separato dal mondo. L’abisso in cui è precipitato adesso con la perdita della memoria non è diverso dall’altro baratro: la solitudine mentale di cui soffriva. Si era risolto a vivere nell’intelletto. Ora un nuovo rogo metaforico, a cui assiste attraverso l’eliminazione della scrittura in rue Talma, pare affrancarlo dai suoi fantasmi.

   Cesare, Napoleone, la maga Alcina, lo stesso totalitarismo che trapela nelle premonizioni di Canetti sono anche simboli di una data scrittura al potere; la scrittura che tutto dice, volendo soggiogare le cose nell’utopia di una comprensione universale e definitiva, capace di dominare ogni momento e ogni vita. Ma quegli stessi simboli hanno in sé, tutti, un proprio tallone d’Achille, col seme di una sconfitta che dovrà maturare. La storia lo conferma. E in ogni uomo sembra celarsi, in debite proporzioni, parte di quelle cose quasi cosmiche.

   -Macro e microcosmo.

   -Davvero; ognuno di noi vivrebbe rischiando quelle utopie. Soltanto una certa saggezza spinge, con soluzioni sempre differenti, a studiare modi per impedire al linguaggio di ossessionare; per non lasciare che la filosofia, per dirla con Wittgenstein, faccia vacanza, cioè produca un girare a vuoto e a vanvera delle parole destinato a com-prendere ogni cosa. A un certo punto incontreremo ciò che non può essere espresso linguisticamente, che non riesce a contenere la nostra spiegazione. Altrimenti è come se si volesse far entrare in un bicchiere un ettolitro d’acqua, spiega il pensatore austriaco, che si domanda quale sia lo scopo in filosofia. Lo scopo, risponde, è quello di mostrare alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia, dalla trappola. Anche Julien de Pouvoir ci aiuta a capire quale sia il nostro scopo virtuale.

   Come Julien bruciamo tutti una prima volta, incontrando le gravi difficoltà della vita, e allorché ci accorgiamo che tutte la nostre prime certezze vanno inesorabilmente in fumo.

   Ci sono poi gli anni in cui tentiamo di ricostruire pazientemente delle nuove verità, che sembrano più solide. Eppure, a un certo punto, è solo il coraggio di accettare (per capire) la morte della scrittura a farci salire su quella scala famosa, apparsa al filosofo di Vienna; una scala che dopo aver utilizzato possiamo e dobbiamo gettare: siamo saliti lungo le proposizioni, su esse, oltre esse. Occorre ora superare queste proposizioni, e vedere rettamente il mondo: su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere.

   Un silenzioso rapporto con l’universo, con l’indicazione verso un quesito risolto. Anche la porta di Kafka, per giustizia, è sempre stata aperta; si può lasciare la prigionia della stanza dei nostri equivoci, e la solitudine orgogliosa che impedisce reciproca comprensione. Un ultimo residuo di onnipotenza da sacrificare, se vogliamo, tutto sommato, mettere le frasi al posto giusto, irreversibilmente.

   Anch’io ora, signor Fabrice, devo capire qual è quella parola che fa traboccare il vaso, e che uccide  la scrittura a quel punto: è quel luogo a quadri dove debbo andare, oltre cui non è più possibile una mossa nel gioco che si è esaurito per scacco.




10. capitolo


   Com’è bella Parigi stamani dopo l’amore con Adèle.

   Abbiamo lasciato insieme villa Collet, molto presto, col cielo sereno.

   Il bus 58 conduce lentamente lungo rue Didot, le cui immagini di risveglio si stampano sui nostri finestrini simili a un cinema ineguale e più nuovo a ogni curva e fermata. L’autista ha la calma di un maestro e parrebbe intuire tutti i nostri desideri di scoperta anche onirica; fa andare piano il suo mezzo disinvolto, cura i comandi come fossero viventi, e l’autobus che si culla fra le vie sembrerebbe assolutamente rispondere alla sua abilità. In un bar si scorgono per un attimo avventori e passanti, in sosta che sembra religiosa e una madre, poco più in là, che mostra al suo piccolo le lustre vetrine trasparenti. Da una rosticceria emergono soavi presagi, tutti profumati da questa giornata schiusa e sbocciata sui primi cibi esposti.

   La place de Moro Giafferi, in cui sembra per un attimo lontano intuire mio padre in un’antica sofferenza, si staglia piccola e curiosa; qui è la città in uno dei suoi angoli infiniti e discosti, mutevoli al passare delle ore. E passano minimi regni veri, porzioni di pensiero che mettono in relazione piana e pacifica le forze straordinarie dell’avventura architettonica, così capaci di premere con scosse intorno alla piazza da ogni dove. Le prime ombre mattutine sbirciano seminascoste per non disturbare, come quando qualcuno entrando in un salottino discosto della casa, e sentendosi impacciato, teme per la sua stessa invasione. Allora la piazzetta è un pezzettino di mosaico fosforescente della metropoli inventata dal tempo messosi a giocare. Abbracciati, Adèle e io abbiamo le guance unite e sentiamo senza parole spingersi a noi tante emozioni locali, la loro eco ludica sulla pelle, simile a idea dischiusa ogni volta che ci guardiamo negli occhi. Intanto il bus è arrivato in avenue du Maine, mentre scendiamo presso la stazione ferroviaria di Montparnasse.

   Con mio padre ho appreso i modi di amare Parigi.

   Poi ho fatto da solo, e ora è splendido riuscirci con Adèle. Verso di noi Parigi poi gioisce, e viene incontro priva di veli segreti. O con tutti i suoi segreti a disposizione, per noi, fierissimi d’ospitarla e di farci ospitare tra ragnatele palpitanti di pensieri scolpite in ogni gita.

 

   Se ci tratteniamo per esempio al parco des Buttes-Chaumont, nelle sue abetaie da dove circolano ruscelli e prati, sui ponti fra sentieri scoscesi e rocciosi, o nella sua grotta più espressiva,  sotto il fragore della massiccia cascata, Parigi diviene carezza letale e industriosa, e allora come un giovane bravo in creazioni Buttes-Chaumont si svela e si sposa con la cintura di case che l’incorniciano a ponente, col proprio sguardo di densità parafrasate. Le sue radure appaiono fasciate dal sogno, dove è più bello baciare come fosse la prima volta, e lasciarsi stordire dal cielo fresco come il pane.

   Tutto lucente e opaco questo verde d’erba che cresce sulla pelle di Adèle quanto un marchio liscio, decisivo, mentre le sue mani, andando a spasso in me mi spingono a guardare nelle sue pupille alla ricerca del circuito totale, che fa svanire.

   Al boulevard Ornano, se la mano è nella mano, e la città ci approva, noi rispondiamo come ragazzi a un’interrogazione: seri e composti per essere creduti in questo divertente gioco di specchi che il centro città qui colleziona verso nord, quasi per mostrare come esso non abbandoni le sue intrinseche e rare vastità, nemmeno in procinto d’andarsene in su, verso Saint-Denis e l’alta periferia che poi le farà svanire per magia, ma che per trucco esperto e autentico non periranno mai. Come sulla giostra noi navighiamo assieme alla nostra città: con tutti gli effetti vivi dei riflessi increduli che danno sempre novità di prospettive; ma alla fine ci arrendiamo, colti nella linea di questo boulevard da un’aria birichina: come se in essa nuotassimo per conoscerci meglio inventando altre frequenze ancora, per stare più vicini.

   Ride Parigi, in place du Marché Sainte-Catherine, saziata in fondo al sacco dal nostro sentimento d’appartenenza. Accedere a qualcosa d’intraducibile e levigato emerso dalle province più lontane, per approdare qui con sforzo estetico e lucente, nel quadrato presente di case che s’intrufola imperfettamente leggiadro; pare quasi in un sacrario, in ricerca inespugnabile. Dai caffè sbirciano gli occhi sani di gente apparsa nel sogno; e dentro lo spazio delimitato da costruzioni tanto francesi compaiono i passi di persone orgogliose d’essere giunte fin lì. Anche noi due, seduti ai bordi di una panchina c’immaginiamo in coppia il sogno.

   A tratti un bambino sembra essersi scordato di sua madre, corre fra tante gambe di passanti con dentro felicità, e cade alla fine per scabra immaginazione sul terreno. Sua mamma già è là, per sollevarlo fino al cielo e ringraziare, diremmo, d’avere un figlio così gaio e speciale. Sembra castello di re, o un firmamento stellato questo guscio in cui accarezzo anch’io Adèle, certo con lei di somigliare con identica maturità a questi posti intrisi di segnali; ma siamo irrazionali, e per questo anche noi speciali.

   L’avenue Émile Zola, da place Charles Michels è tutta un’illustrazione di progetti. Mai soddisfatta chiama e richiama dalla sua linea chi le piace davvero. Vuole appunto mostrasi in splendide metafore zigrinate. Ti spiegherà chi sei, con ampia chirologia, darà senso al tuo viaggio in lei, vettore esistenziale. E allora pare più bello ancora essere promeneur così, su voci invisibili di una città che ti giudica eroe. Per l’anima diventi un filantropo geografo sui suoi marciapiedi, e tu le chiedi di venire a sua immagine e somiglianza. Sostare, temporeggiare rimanendo occulti: perciò sembra d’essere posti sul punto preciso di tante coordinate.

   Sul quai de Béthune le novità scorrono bene, lo so. E voglio veramente aprire all’acqua leggera un’altra rarità. Veniamo a incantarci all’ombra. Qui pertanto la città m’apprese il suo linguaggio ricco, e potei risponderle contro il fato e nei mille giochi d’amore scivolati fra le viuzze possedute nel volto dell’isola più felice che mai.

   Rivoli di storia fissano sguardi nel modo dei gabbiani allietati dal volo; io osservo sempre in Saint-Louis le forme che la Francia gode a portarci. Cerco nel corpo di Adèle l’arpa che mi cantò la forma certa da presentarle, da scandire per premio. Torno qui se rivoglio lo stesso peso specifico del vuoto assolutamente nativo.

   Dal quai salgo completo, coi colori dei quartieri che s’incrociano senza soffiare. Rapito da questa bocca che si svolge tutta quanta al centro ancora meglio cittadino della mia intera voluttà. La gioia d’esistere per lei, d’averla come sangue pieno e scritto fino in fondo alle mie possibilità.

 

   Subito al boulevard de Clichy si sentono dei tempi chiacchierare: vi è modo di pensare al presente da questo sguardo parigino che ragiona inaspettato. Non ci si può più arrestare qui. Poi le scosse variopinte in gergo, che fanno passare mutevoli i minuti non hanno pace, per poter proprio invitare al loro gioco inquieto tutti gli stupendi tranelli del cuore, che ha curve spumeggianti e se stesso vorrebbe allora eternamente divorare. Bello essere ancora cibo per questa città, o scivolarle via sentendo suo il fiato vaporoso che entra in vena simile a un ricordo esagerato e perituro. Esso ha mantenuto decorazioni e desideri di un’infanzia viva e umana, suonando le proprie luci saettanti, proiettando ogni memoria incatenata al piacere di future impressioni. Come in una vasca d’acqua tiepida che non si vorrebbe abbandonare, i cui gradi di tepore vanno su e giù, da noi corretti con sempre nuova corrente onde avere il benessere di una temperatura costante e fine, anche le alterazioni della vita noi manovriamo illusi, ma con vera maestria.

   Ma rue des Martyrs è già realtà.

   Parigi è lì, per te e tutta vera. Come tu sei ti vuole a sé, gentile, ordinato e ostinato e con in pieno tue voglie infinite e ricreate in permanenza. Tu le appartieni. Ti appartiene, lo vuole, e non aspetta che te a quel ciglio di strada dove nasci parimenti come altrove a ricordare in Edith Piaf, su pochi scalini a Belleville, l’età che avevi; allora non ti serve neanche più l’eternità. Tu le dai rose!

 

   Su, verso rue du Faubourg Montmartre la gioia scoppia. Adèle non resiste ai miei scatti quasi chiari. Lei ogni mio moto lo vorrebbe intuire e poi conservare in sé, come la vita: guardiamo in là, verso La mère de Famille e respiriamo insieme, quanto in ombra la penombra appena vera: schiude miraggi che si lasciano toccare.

 

   Parigi ai Porti, alla Senna vivace sotto i ponti ricchi delle sue isole. Parigi forte, fortissima come un fiore estivo e ossuto che non si smuove al vento e s’inerpica sullo sciacquio di queste correnti che porteranno al mare i nostri ricordi possenti. Tra una e l’altra idea gli amanti s’incollano a quel mutare di corrente che barche sostiene e colori ineguali: si tuffano a inglobare in lingue azzeccate e fin che dire si può, la loro audacia marinara; quasi che il prisma voluttuoso di parole così dette portasse il sortilegio dei loro dizionari.

   E mentre s’impara a tacere per cogliere la corsa disparata della riviera s’apprende la monotonia come una voglia, una noia trapassata nel vuoto incespicato sulla fluente lena che trasforma quei posti in reali bacini dalla splendida perversione ereditata dalla luce. Allora, a immagine della città, si entra per così dire nell’efficiente e crudo rituale, più belli e avvincenti, come dei suoni venuti da sirene. E via con quella forza arguta che non si comprende essere, per fortuna, la verità stessa e viva della città appena passata. Ai bordi e sulle rive essa continua a spaziare per un costante amore smosso sul fiume così ruvido, così liscio.

   Poi, davanti al Collège de France s’inventa a ogni ora una poesia.

 

Egidia, diceva, lasciando

perpetui incontrarsi gli strali

di parole piovute come veleno

e rotte dal silenzio ineguale. Diceva

per dolore cose infernali e idee

infuocate col labbro torto

fra quei diti stregati: a nessuno

poté evitare la forza astuta da idioma

che canzonava col carnevale acceso

degli occhi, e rabbia vorace addirittura

da invidiare. Per nulla

si dava facilmente al caso,

occupandosi a preparare stratagemmi

per pochi, per chi la prende coi sensi

e col cuore infranto fino a farle

vomitare l’acido più dolce che dà

alla pelle sconquassata il permesso

di fedeltà. Diceva di volere, di possedere

quando è in forma ogni corpo che sia

così capace, e inchinata

offriva meglio la sua assurdità. Ha

detto a me, che le ero molto vicino,

anche più di una parola per ripicca,

per osare sfidarmi fino al letto

che disonora solo insonni cretini. L’avevo

invasa della mia umiltà, diceva, convinta

di possedere quasi per caso

l’osceno congedo che si permette

il tempo solo da morto. Impazzì

tra le mie mani, sporgendosi

sin troppo su di me

continuando a sputare quei colori

che diceva essere i migliori, e facendo

impazzire anche fin dopo le parole.

 

   E la rue Saint-Victor. Chi la sa visitare? È quasi un problema logico poiché non si possono ammettere certe sublimità. Vanno svegliati da queste parti i ladri di parole che fanno finta di stare fra le strade. La via è una conquista che cresce sbocciando dopo un lampo, e un lunghissimo lavoro paziente e linguistico dolore. È per pochi, pochissimi fortunati sofferenti. Sembrerebbe un paradosso in solitaria attesa, in isolamento rotto in apparenza da celate interferenze. La sua attitudine è molto tenace e spaesata; l’affrontano gli eroi soltanto che schiudono i segreti a regola d’arte.

 

   In rue Talma e nei pressi torno sempre e specie al bar Aéro. Vedrò chiaro in questo mistero; perciò da giorni qui le mie visite si fanno regolari. Seguirò ancora attentamente Lacan, per farmi di tutto un’idea più precisa. Una o l’altra strada mi porteranno sempre qua, come in Roma imperiale. Altre scorciatoie dovranno occuparsi di me, rêveur per solinghe campagne dei Verdi prati, usate sincronicità. Cosa potrà emergere allora, fra tante cose che ancora non riesco a scandagliare? E come si lascerà libero lo spazio anche alla mia scrittura? Forse nel momento in cui capirò che a uccidere questa possibilità è stata la parola stessa che sto cercando invano, sembrerà alla mia mano di seguire una strana terapia che indica ciò che sgorga come inchiostro in un viaggio nella città che sa proprio elevare la scrittura ad arte.

   Al bar sul filo delle ore attendo l’indizio opportuno e nuovo, e magari l’assassino, più vicino che mai; forse questi torna spesso a riguardare l’infelicità del suo delitto. La pazienza mi è amica, e sono pellegrino nell’inferno inverosimile che riuscirò ad attraversare per scrivere, e poter scrivere ancora, quasi per necessità.

   Adèle ora guarda rue La Pérouse, e io l’avenue des Portugais. Siamo perpendicolari nel sedicesimo arrondissement. La città fa incontrare le vie incrociando noi intorno ad esse come la spiaggia il mare.

   In cité Odiot s’ascolta intanto sul cavo di conchiglia il suono pigro di Parigi racchiuso fedelmente per l’attimo che basta. E place de Mexico è una risolta e ben precisa leva per scavi rari con audacia, ed è come in campo le spighe estive che maturano nel cerchio sbarazzino, stando la sera aspettando una nostra storia per bene addormentarsi un altro po’.

   Villa Wagram Saint-Honoré dove è nascosta ora la nostra città, per un gioco di ragazzi; c’insegue o l’inseguiamo più forte di prima. Oppure dissolve per malia chi si diverte con lei in questo spazio trascinato via per pur divertissement.

   Allora torno in lei in square du Roule, e siamo tragici ormai. Ha privatissima euforia e insieme fa girotondo penetrando fino in fine.

   E la rue Galilée entrerà fino a place des États-Unis creando ammirazione, e nel verde rettangolo è gradita all’arte del sogno, come colta da Paolo Uccello in prospettive per inghiottire ottici tutti gli effetti casuali di strabilianti amplessi.

 

   In questo modo esiste la via di Jeanne Monti, che ha deciso di viaggiare per la prima volta in volo. Vacanza a Tenerife. Cosa cela la città in quella via così cara a mio padre? Cosa schiude la sua casa che sembrerebbe sepolta dai succhi profumati e misteriosi che coltiva? Come alle Canarie è il giudizio dei colori che vi appare; ed essi liberati da regole svettano insieme a formare il mare; acque in proporzioni per altre cose da dire e lasciar riguardare dalla sorte. Jeanne è proprio lì, a vedere le probabili emozioni che a passeggio si specchiano nel suo Dézaley. Ci accoglie e tinge di savoir-faire; sì, certamente in una gita tutta quanta anche antica e greca. Con brani di città lavorati nella maglia che ha presa efficace su di noi. La lasciamo fare, in formule da specificare. Anche lei forse è maga per il segreto che cerco nuovamente di veder apparire dalle sue parole.

   Esiste la rue Jules César. Che dire ancora ? I suoi elementi crescono all’insegna di pochi privilegi : un tuffo in più nel bianco cupo delle idee che paiono vaneggiare, ma poi si traducono davvero in eleganza posta in trono per chi legge con dolce creanza. Rue Jules-César ha questo di ulteriore. Non oserai altro se vieni a vederla; ti sembrerà muovere i passi come allora, a bella posta. Potrai cantare dentro di te, in attesa di qualcuno che sia come te. Troverai forse ancora di più, a guardar bene. Ed entrerai magari in uno di quei luoghi espressi, che si dicono e scrivono proprio così. Di là poi non incontrerai che vuoto fiuto per definire tante case seguendo non solo questo istante, ma pure gli altri che ti saranno tutti amici. Saprai di quelle cose l’essenziale, per non ripeterti e non causarti guai.

   È ciò che cercano i costruttori veri, che intendono poter parlare per accennare a ciò che mai esiste e sempre c’è. Poi non partire subito, credi, se sfiorerai anche così la rue Georg-Fridrich-Haendel. Laddove il sole rasenta percettibile linee ai suoi bordi, come indicasse a te l’uscita. Siccome ci si trova sul prato d’aria che scuote, mi porrei all’ascolto di quel che passa, volentieri, che si tramuta e torna in Francia a celebrare; è la sua originale partizione protettiva, agli inizi di ogni scoperta nel viaggio intorno a noi.

   In fondo al pont des Arts più ombre occhieggiano per fedeltà nella nostra direzione; certo portiamo diverse nuove parole a guardare il fiume, che oggi riceve idee tondeggianti e leste dalla Coupole disegnatasi sull’acqua appena crespa: perciò ci dirigiamo al quai Voltaire che ci aspettava, più presente che mai.

 

   Oggi allora ci baciamo a quella stazione d’arrivo. Ci fermiamo a Montparnasse, come dicevo.

   Ci lasceremmo distrarre da qualche carezza ulteriore, dai guizzi d’altri sguardi e dalle nostre mani che cercano respiro. C’infiliamo come siamo capaci lungo il parvis Daniel-Templier, sentendo in questo andirivieni lubrificato dai continui mutamenti i treni che rientrano a ricordarsi deità.

 








12. capitolo


   Ora tocca davvero a me ritrovare questo bandolo della matassa.

   Ho salutato gli ospiti usciti dal giardino. Mi sistemo ancora nel verde della mia impasse, sulla poltrona preferita accanto al ciliegio. Debbo fare un po’ d’ordine tra tante idee e ripensare ai suggerimenti avuti.

   Dove andrà a poggiare l’architettura del delitto su cui rifletto? Continuo anche a farmi aiutare da ciò che è rimasto dello Château d’Yquem, e mi sento sufficientemente felice per spaziare intorno al presente. Il mio linguaggio non fa vacanza ancora. L’ho impiegato fin dove potevo: adesso debbo riuscire a comprendere ciò che sta capitando senza usare un idioma. Sarò intransigente, utilizzando solo le parole fino al punto giusto, e basta poi, per non dovermi vedere trasformato da Alcina a suo piacimento; per non essere incantato o fuorviato dalla mia stessa dizione.

   Non mi porrò abbondanti domande, me ne ricorderò, formulando solo quelle suscettibili di risposta: so che se posso costruire un interrogativo, avrò risposta; per gli altri, i successivi, vi sarà divieto di creare il quesito in forma di frase, per evitare tranelli. E qui mi metterò veramente alla prova. Osservo in me quindi scorrere tutta Parigi dal mio giardino, e le lascio indicare il senso che cerco.

  Non si tratta più di intuire logicamente, ma di intendere, ed è tutto. Nel momento in cui saprò con certezza non esistere mistero, avrò risolto il problema di questa storia. Desidero affermarlo con Wittgenstein: le proposizioni, a cui l’uomo ritorna sempre e continuamente, come se fosse stregato, vorrei cancellarle dal linguaggio filosofico. Come quando cedo al corpo di Adèle, capisco perfettamente e non sento certo il bisogno di aggiungere, dire o domandare alcunché. Aderisco a meraviglia, come alla forma di vita in cui mi trovo e faccio il mio gioco. Sarei pazzo ad agire diversamente.

   Lo stesso se ammiro il dipinto di Bolzani a villa Collet, e anche se immagino come Händel stava a guardare un Rembrand. Posto in una Ronda di notte questo assassinio troverà infine la sua luce. Tutta interiore. Il lampo della soluzione emanerà direttamente da me, figura errante tra le tante, fra i tanti chiaroscuri della vita. Avere adesso il coraggio di abbandonare l’eleganza del segno, di quello scritto e di quello pittorico; e soltanto ricercarne la struttura, l’indicazione assoluta, posta agli occhi vuoi ora dalle stupende vibrazioni del Bolzani che illustra ceppaie, vuoi, magari, dalle proporzioni in gioco della casa progettata da Engelmann e Wittgenstein in Kundmanngasse, nella Vienna speciale.

   La stessa immagine apparsa in sincronicità  a Jean-Michel Privay, in Italia, che gli regalò la guarigione; visione perspicua restituita al presente. Perciò, forse, come sosteneva ancora il pensatore austriaco, la filosofia avrebbe dovuto essere soltanto scritta in poesia.

   La mia Adèle comparsa al Baron Rouge diede immantinente chiarezza: un’altra sincronicità. Questo valse anche al 16 di rue de Passy, per mio padre; e per l’altra esperienza che egli visse una notte all’Ermitage nel Doubs, con la musica che disincanta una creatura rimasta prigioniera fra le mura del tempo. Prima ancora fu il suo professore Marcel a portare Jacques alla luce, quanto un Prometeo filantropo. E Serge Pluchet, il suo amico d’infanzia: loro, insieme, vollero addirittura immaginarsi lo spazio geografico in unica dimensione.




17. capitolo


   Per alcuni giorni mi trovo in Svizzera. Ho approfittato di urgenti impegni di Adèle fuori città per accogliere con entusiasmo l’invito di un grande amico di mio padre, Serge Pluchet.

   Sul TGV diretto a Ginevra dalla Gare de Lyon, ho avuto l’agio necessario e la calma per rileggere Significato. Il libro di Silvana Borutti mi ha ancora impressionato, e un passo in particolare, che rimanda a Wittgenstein, ha ridestato tutta la mia attenzione. Alla fine non ci sono più ragioni: si parla.

   Questo luogo di chiarezza finale, dove si smette di filosofare quando si vuole è certamente un luogo ambiguo: è l’uso ordinario chiarito, neutralizzato nelle sue emergenze normative. Si arriva alla chiarezza per la via indiretta dello sconcerto: l’invenzione di forme di vita, il gioco della variazione degli usi crea confusione, provoca sradicamento e spaesamento linguistico, ma alla fine ci mostra che cosa ci è familiare – qual è la nostra grammatica, quali sono le nostre certezze. Osservazioni che a Parigi avrei presto avuto occasione di ricordare fra quelle decisive, per il caso alla cui soluzione anelavo.

 

   La casa di Serge, a Chêne-Bourg, all’11 di rue du Rond-Point, mi sta facendo sognare col cuore. Mi aggiro nella sua abitazione come un fanciullo per scorgere magie che si avverano a ogni occhiata. Fa bene l’immensa ospitalità di Serge: mi narra ampiamente delle tantissime cose che lo legano a Jacques e alla fortuna di questa città; è così diversa dalle altre, alla punta di un lago forte in tutta grazia.

   Mi diverto a scendere dalla vielle ville al jardin Anglais, con lunghi intervalli in negozietti sedotti, fra stradine che perforano antichi anfratti, odori che stuzzicano i sensi tutti quanti insieme. Alla cattedrale di Saint-Pierre e nella raffinata piazza antistante canterei pieno di risorse, mi presenterei come fossi nuovo.

   Ai bordi del Lemano è in particolare il colore che prende l’umanità dell’abitato, e sotto il famoso Jet d’eau sono invaso da mille pungenti goccioline: cadono nello spirito come doccia imperiale solo per l’appartenenza alla vita. Il crinale della catena giurassiana da una parte e il Mont Salève alle spalle inquadrano questo moto di curiosità che pretende solo note speciali.

   Ma specialmente è la nostra casa che mi folgora per la straordinaria e vellutata esuberanza; è così tanto accesa, e tanto silente. Circolo ovunque, col permesso di Serge, il quale conosce il mio attaccamento alle dimore non comuni. Il giardino è anche di una venustà florida, e sembra lo specchio perfetto della casa nel quale, quasi, guarderei volentieri anch’io il riflesso di qualcosa che m’appartiene.

   Con un breve volo d’aereo il mio ospite non ha voluto mancare di mostrarmi Lugano, l’altra città svizzera in cui vive, in un appartamento che cura con tatto espressivo. La proprietaria Rosita Marzi è gentile; ci offre una cena che non scorderò, col dorato Fendant e poi con un Merlot del Colle di Sorengo. Carni, polenta e boleti cucinati ad arte; diversi dessert con dolci tutti di casa.

 

   Passeggiamo ancora insieme nella città serale, per tentare di smaltire l’offerta luculliana. Lugano mi diverte assai, e la sua aria appartiene a quella di un lago – anche stavolta – che occhieggia volendo accarezzare tante vie e viuzze, che risaltano qua e là nei tratti prospettici molto suggestivi. Serge deve voler bene a questo vispo abitato che ha bellezza sapiente e sostanzialmente riservata.

   Compiendo un piccolo viaggio verso nord ovest, il Signor Pluchet mi conduce il giorno successivo anche a Comologno, paesino della valle Onsernone che desidera a tutti i costi mostrarmi. Motiva la sua intenzione con l’interesse che mi fa sapere aver avuto mio padre per quel villaggio.

   Debbo ringraziare la mia guida poiché le cose che ho visto qui sono suadenti e in bellezza indecifrabile al momento; vive nei luoghi, sentirei, qualche cosa di superiore e anche l’insieme della valle ha struttura di fascino selvaggio e specialmente fuori mano. Unica nel genere. Un paesino spinto all’inverosimile, al gusto di cose capaci di non farsi scorgere ma di galleggiare tranquillamente nell’aria buona che forma la rarità di tanta leggiadria. Strecc, come dicono qui, i vicoli stretti che assorbono il passante in un universo profondo e insondabile! E il cimitero, amato da Jacques; è un inno a creature che riposano sull’apertura splendente di questa valle a “V”. Anch’io qui mi sono raccolto, e ho sospirato con un augurio e per amicizia.

   A pranzo siamo stati al Palazign, sulla prima curva del villaggio. Buone le cose offerteci. Ho un attimo per pensare alla ricerca che mi sta nuovamente aspettando a Parigi.