Home » il romanzo "Autorevole amore" » Autorevole amore » da "Autorevole amore"

da "Autorevole amore"

15. capitolo

   Ho visto nuovamente Julien de Pouvoir. Ho anche incontrato il mio caro amico Jean-Michel.

 

   Julien è tornato a casa, ed è assistito da una coppia di infermiere e da un terapista. Il suo caso è considerato assai interessante e molti specialisti si avvicinano a questo uomo che scombussola le certezze scientifiche di taluni.

   Parla, ma non sa più niente di preciso dei libri, della sua città. Ha dimenticato la concretezza della vita; eppure vive bene al presente, l’unica dimensione che gli si rivela. Non sa più leggere, e si tenta di ricostituirgliene  le tecniche. In compenso non soffre più d’insonnia e, anzi, dorme ora più del necessario.

   In rue du Ranelagh l’ho proprio scorto mentre riposava. Il suo volto pareva così rilassato da rendere persino un po’ inquietante la serenità che da esso fluiva.

   I suoi tratti, su cui il tempo sembrava essersi dimenticato di deporre gli strati caratteristici e deformanti, ricordavano quelli di un adolescente pago della sua età integrale. Al confine dei confini, dove ciò che sta dietro e ciò che aspetta davanti si coinvolgono: non per mancanza d’identità, ma per totale convergenza e concordanza. Per uniformità. I colori del viso erano smaglianti, assopiti in un’assenza che genera piacere. Gli occhi quasi socchiusi e pressoché sfiorati dalla dolcezza della capigliatura bruna sembravano più in vita che mai, pronti a osservare i dettagli. Il naso, centrale, che mi faceva venire in mente gli scambi di una stazione ferroviaria – non so per quale motivo – si ergeva muto e autonomo, quasi straniato dal resto del profilo e dava alla persona un’armonia da cartina geografica, mentre la bocca, disegnata sul grafico della sua espressione tanto vivace ed eloquente, sembrava pronta a scandire entusiasmanti proposizioni per una giovane amante.

   Tutto il baricentro dell’immagine poggiava sul mento, arrotondato alla perfezione; tutto tranne la spirale delle folte sopracciglia, che appena si lasciavano scorgere dietro varie ciocche spettinate sulla fronte. Molti letterati avrebbero presto pensato a Dorian Gray, perché quel volto d’uomo che giaceva e rintoccava come un suono sommesso e domenicale, aveva fatto sparire dai suoi tratti la consueta umanità, sciogliendosi in un portrait sacro da poter portare al tempio (dei sensi).

   Il nostro linguaggio è come nel giardino del Gigante: s’incastra nell’egoismo delle proprie sfumature. Queste lo imprigionano pretendendo di fargli dire la bella stagione a ogni istante. Fargli esprimere ogni cosa per averne indisturbate i frutti migliori. Il linguaggio è schiavo, e di esso si abusa, come fosse cosa naturale.

   In principio comunque era il verbo. E anche alla fine, se consideriamo la conclusione della novella di Wilde. In mezzo sta quel muro di confine.

   Al tempo del verbo tutto era una bellissima primavera, con erba verde e morbida, e la sovrana felicità. Ingigantita, la parola obesa schiaccia deformando la gioia e la pertinenza azzeccata che la conteneva armonicamente. Il giardino della scrittura s’inaridisce e scompare nella tristezza della vaga desolazione. Il muro è ormai un’icona eccentrica che trattiene solo maledizioni linguistiche. Ci si abitua tanto bene a queste mostruosità quanto presto è facile considerale cose famigliari, parole da usare indifferentemente. Il giardino si esprime adesso con un egocentrico potere che non dà retta assolutamente al resto del paesaggio esistenziale. Il senso di questo non è neanche più scorto; il muro del giardino delimita una prigione che si chiude su sé, inesorabilmente. Il condannato non uscirebbe più dalla cinta; viceversa nessun altro potrà penetrarla per venirlo a incontrare. È la morte della scrittura.

   Eppure per sette anni il Gigante era stato lontano, in Cornovaglia; ma sappiamo che la sua conversazione è limitata. Ora, appunto, al suo ritorno fece erigere l’alto muro, per egoismo.

   I bambini – che si scambiavano una volta liete proposizioni nel parco –  non sanno più adesso dove andare a giocare.

   Il linguaggio si raggela, la grandine batte ogni giorno per tre ore sulle sue espressioni. È freddo ininterrottamente.

   Ma nel muro, col tempo, si formano brecce. Vi passano le musiche che trasformano, piccoli e dilettevoli profumi che toccano il cuore. Quello che accade è inevitabile, e si scioglie il confine e l’inverno della parola.

   Nella chiarezza di ciò che succede il gigante, il giardino, il linguaggio tornano con evidenza e col silenzio di un bacio a far segno, a indicare ciò che sta oltre, e che sempre aspettiamo di vedere promettendoci il paradiso che si presenta.

   Come in un estremo incontro tra Don Chisciotte e Sancio Panza, l’intreccio irreversibile si fa pensiero. Il pensiero è come un velo, e ragionare equivale oltretutto a scandire certe precisioni. Chi sa riflettere bene può convertire sue risorse in perspicacia, e anche tradurre e tradursi.

   Per questo, per esempio, il linguaggio di chi ha frequentato bene un certo studio, acquista lucentezza e splendore, e convince presto l’ascoltatore. È la prerogativa di chi sa parlare col rispetto dovuto alla comunicazione: costui sa farsi capire in breve, usando giusta dose di riflessione e vocabolario, e lascia all’interlocutore la piacevole possibilità di proseguire, da sé, una strada ormai stuzzicata gradevolmente dall’eloquio.

   A un certo punto, va pure detto, è l’esempio a venir appreso più della parola. Sovente è il ricordo di un modello anche visto, piuttosto che solo ascoltato, a suscitare in seguito entusiasmo in presenza di persone di spiccata levatura.

   Quando abbiamo la buona sorte di incontrare qualcuno con straordinarie capacità empatiche e persuasive, nuove certezze si fanno strada. Non ci spieghiamo il perché; non ne abbiamo le parole.

   Questa é anche la robustezza della grande letteratura. Nessuna parola di troppo potrà ferirla. Essa è solida al punto da non dover più di nulla soffrire: è passata  – per la sua chiarezza – al di là del bene e del male. Appartiene a un impero che ha senso e spiega. È cosa umana, ma fuori dello spazio e del tempo della sua condizione. È destinata all’infinito presente che non declina per nessun motivo. Certe persone che incontriamo nella vita, appunto, sembrerebbero sorgere da quella letteratura.

   Il volto di Julien de Pouvoir, per suo conto, contiene estratti di quel mondo. La sua elevata persuasione è composta di quiete esclusiva che si è sottratta alle nervature date dalla solita somma delle nostre giornate; quelle passate perlopiù di corsa, per non andare seriamente da nessuna parte.

   Da quel volto filtrano parole senza suono di un’etica estetica, in un raffinato gioco di fedeltà.

 

   E così incontrai quel giorno anche l’amico Jean-Michel Privay, nel negozio di Nelly Demoulin, in rue d’Hauteville. È un grande appassionato di maschere, e frequenta assiduamente tutti i negozi del genere della capitale.

   Sotto una maschera, pensai allora, il soggetto sembra forse meglio non appartenente al mondo; oppure essere limite del mondo, ricordando Wittgenstein. D’altra parte l’etimologia del termine “persona”, richiama proprio la maschera. Essa è quella pellicola che portiamo indosso, in virtù della quale riusciamo ad avere ruoli nella vita, e ai quali in realtà non aderiamo se non per accedere alla comunicazione che parla dei fatti: quelli il linguaggio sa cogliere perfettamente.

   Eppure dentro il mondo e la vita non riusciamo mai a risolvere e stroncare i veri problemi dell’esistenza. Essi spariscono invece allorché smettiamo di rappresentarceli in qualità di enigmi; quando eliminiamo dalla loro struttura la proposizione che li ha sostanzialmente messi al mondo.

   Per fare questo ci dobbiamo svestire della maschera, che ha sempre un tempo, cioè una propria storia. Senza maschera avvertiamo sotto noi il limite del mondo, come se stessimo sopra il muro del gigante. Da lassù, dal confine percepiamo insieme quanto accade sia di qua che di là della cinta. Anche il muro è una maschera; una recinzione che permette di far nascere – proponendo l’espressione “questo è mio” come verità – la società civile. Lo ha ben spiegato Rousseau.

   La società civile, consente bensì la vita associata, ma è del tutto incapace di rispondere alle cose che accadono di fuori dal muro.

   Ognuno di noi, civilizzato, vive come internato entro un muro di cinta. Ogni proprietario parla ad altri proprietari e con essi convive. Ci si maschera per poter fare ciò; ma il terreno “franco” fra le differenti proprietà – questa terra di nessuno – è l’unica vera ragione che unisce e libera il nostro linguaggio dall’introversione caratteristica: è una zona che fa segno, che richiama, che sveglia dal torpore, che spinge a inventare, a perfezionare la parola e quindi a liberare l’anima che non può certo sentirsi a casa fra quattro mura, e continua a cercare la breccia.

   Il nostro linguaggio insiste a cozzare contro il muro, ai limiti dell’esprimibile. Tuttavia, ciò che sta fuori del muro non si può conoscere in maschera, linguisticamente; si conosce invece attraverso un atto etico, decisivo, che lascia scoppiare la primavera in noi al momento giusto. Per questo l’uomo ha il privilegio di essere un limite del mondo. Non appartiene al mondo, anche se vi sembra spesso incarcerato, come la mosca nella bottiglia. In quanto limite può apprendere che, senza la maschera che lo caratterizza come inquilino di una proprietà, egli esisterebbe fuori del tempo angusto delle parole, nell’intemporalità propria che dà il senso perspicuo alla nostra avventura universale.

   Ed eccolo il paradiso della fiaba abitato dai bambini pronti a scattare nell’egoismo e fertilizzarlo con la schiettezza loro e tipica, fuori da ogni opinione, misura, dubbio. Il ricordo di quel bambino che una volta siamo stati, in grado di sconfiggere le croci quotidiane.

   A tutto questo pensavo, vedendo Jean-Michel pronto a ritirare un nuovo trofeo per la sua collezione.

   A casa sua, in rue des Petits Hôtels, mi parlò poi della felicità che aveva ritrovato grazie al meccanismo sincronico che io tentavo giusto in quei giorni di scandagliare.

  -Proprio Renata cercai disperatamente- disse -accecato da cose che continuavo a ripetermi con ossessione.- Capii com’egli era stato un recluso avvilito nella sua stessa enorme capacità espressiva.

   -A forza di parlare a me stesso- continuò -mi apparivo trasfigurato, e il mio eloquio cominciavo a avvertirlo come un cappio per impiccati.

   -Diventavi schiavo della tua sofferente immaginativa.

   -Peggio, lasciavo che questa mi prendesse e divorasse. Mi riducevo io stesso a suo nutrimento.

  -Quindi eri destinato a diventare tu stesso un’immaginazione, una fantasia.

   -Questo fu il dramma. L’avevo proprio già raggiunto quello stato in cui, ormai, riuscivo a muovermi solo pensando di non essere più realmente presente alla mia persona. Vivevo, ma non riuscivo a comunicare il mio dolore perché non l’ammettevo; me ne vergognavo: non riuscivo a comunicare il mio dolore perché non lo consentivo, non avevo il coraggio di confessarlo ad altri, per paura di non esistere più.

   -Vi fu poi l’episodio estivo, il breve ritorno in Italia, molto tempo più tardi.

   -Mi spostai nuovamente fino a quei luoghi con una grande volontà; prima sentivo in me parti asettiche, e la voglia di non pensarle, o lasciarle. Non so dire come fossi riuscito nel frattempo in Francia  a costruire una mia nuova gioia; una strana felicità con cui potei riaffacciarmi alla vita e alle sue brezze giulive. Durò bene, anche se in me qualcosa del prigioniero sempre dormiva dentro. All’apice del mio benessere, quel giorno oltralpe in cui rividi Renata, spezzai le mie ultime catene; ne sentii l’effetto fisicamente, te lo assicuro. Era stato un peso orrendo, che per lustri avevo accettato di trasportare e che adesso scaricavo al luogo d’origine; era una cosa reale, senza incantamenti. Quindi poi ripartii, vi riuscivo, ora da solo, quasi per svolazzare, e potendo parlare anche a me finalmente con parole amorevoli.